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Una fine di Merda

Part I sent by fagoshi and uploaded on data 26/August/2004 18:31:13


Rientravo a casa, la mia casa; una vecchia fabbrica chiusa da tantissimo tempo: in una delle stanze che erano state uffici, al piano terra, dopo un lungo e buio oltreché umido e freddo corridoio dagli intonaci corrosi ed il linoleum sollevato e rotto in più punti, avevo arredato una piccola abitazione. Qui vivevo, da tanto tempo, da quando la mia attività imprenditoriale terminò, dopo una lunga agonia, in un misero fallimento: la mia villa con piscina era stata messa all'asta, come tutte le mie cose di valore: auto sportiva, conto in banca, gioielli e vestiti firmati miei e della mia lei.

Solo questo grande fabbricato non si era riuscito a vendere: arroccato su di una collina, lontano dalla città... dove volete che sia situata una industria chimico-fisico-sperimentale? I macchinari erano sorpassati, costava troppo rimuoverli come rifiuti speciali: alcuni, nemmeno io sapevo più a cosa servissero, quali pericoli mascondessero.

La mia donna: non eravamo sposati, stavo con lei da quando aveva 16 anni, ti sposo più in la' , le dicevo. Adesso ne ha 27, ed abitava con me sino a poco fa, da 6 anni in questa situazione. E' una ragazza bellissima: alta 1,75, capelli rossi lunghissimi ed appena mossi, pelle chiarissima con lentiggini appena accennate, una quinta di seno che si reggeva straordinariamente da sé, coi capezzoli grandi ed all'insù. Era di ottimo carattere, ma l'abitare qui, lontano da tutto ciò che aveva sempre avuto, l'aveva molto cambiata. I primissimi tempi mi diceva: troverai altre occasioni, torneremo ad avere un po' di tutto.

Pian piano cominciò a prendersela con me, fisicamente. Dovevo darle non più tutto ciò che mi chiedeva e potevo comprare, ma tutto ciò che mi chiedeva e potevo fare.

Mi si concedeva sempre più di rado, e solo per la sua soddisfazione: un giorno, il giorno che la cambiò, fu quando una di queste rare volte, appena ebbe goduto, si fermò, seduta su di me all'amazzone. Oramai ero abituato, quando veniva prima lei, a rassegnarmi a smettere: e veniva quasi sempre prima lei, dato che voleva essere leccata fin quasi all'orgasmo e mi prendeva dentro solamente per completare l'opera.

Ma quella volta, alzandosi, si stiracchiò per bene stando eretta con le gambe appena allargate su di me, con le scarpe con i tacchi all'altezza dei miei fianchi. Andandosene, affondò con noncuranza un piede così calzato nel mio stomaco.

Rimasi stupefatto, contemplando il piccolo semicerchio rosso che, sulla mia pancia, pian piano andava facendosi blu. Ma non dissi nulla, mi sentivo in colpa e potevo capirla...

Le volte seguenti cominciò proprio calpestandomi dappertutto, così, per suo gusto: se mi vedeva eccitato aveva un pezzo di carne in più da rendere livido e tumefatto.

Non sapevo come risponderle, ed avrei avuto mille occasioni: soleva parlarmi con quella voce dolcissima, senza una punta d'aspro, ad esempio mentre mi calpestava diceva: -Oggi come mi trovi? Mi sento molto in forma, è te che trovo un po' più tenero... o saranno i tacchi che porto oggi, che sono più sottili? -

Un'altra pietra miliare nel suo sviluppo sadico l'ebbe una delle volte che si accovacciava su di me, steso per terra, per ricevere la mia lingua nelle sue parti intime: quest'altra volta non si accontentò della posizione delle mie mani che da un po' di tempo preferiva: all'altezza delle mie orecchie, a distanza di pochi centimetri da queste, con il palmo una volta all'insù ed un'altra verso terra, sempre comunque sotto le suole delle sue scarpe, per tutto il tempo che la mia lingua leccava.

Non bastò, infatti: appena dopo che lei era venuta, sentii un altro sapore, salato ed amaro, in bocca: quello della sua urina. Ne fece solo poche gocce, giusto perché me ne accorgessi e mi mostrassi stupito: piegò la testa in avanti ed i miei occhi spalancati videro il suo viso incorniciato da una tenda di capelli rossi: mi guardò dolcemente e mi disse: -bevi...- e lasciò partire un rivoletto che pian piano aumentò d'intensità, fino a schiumeggiare nella mia bocca come nel buco d'una turca, e come da questo ingoiato fino all'ultima goccia.

Avevo iniziato a capire che il peggio doveva ancora venire quando, mentre sorseggiavo la sua caldissima piscia, udii che contemporaneamente emise una scorreggia lunga, non volgare: prima vibrante con delicatezza, poi solo un sibilo d'aria pari ad un soffio; il tutto avvertendo quasi d'improvviso il classico odore di scorreggia fetida.

Non mi sbagliavo: terminata la pipì, sentii i suoi piedi rullare di poco sulle mie dita oramai quasi insensibili, di quel dolore sordo, quando avanzò col bacino fino a far corrispondere il suo ano con la mia bocca. Pian piano si liberò: dovetti ingoiare i suoi escrementi caldi, pastosi, appiccicosi; dovetti anche fare attenzione a masticare, poiché le piacevano molto le ciliege, che abbondavano qui intorno sulle piante, e che lei inghiottiva con il nocciolo. Quei due giorni, peraltro lontani da oggi, furono l'inizio solamente: ero il suo zerbino ed il suo gabinetto da circa 5 anni. Voleva di più, ma non sapeva cosa. O meglio, non lo sapevo io.

Arrivato nell'appartamento non la trovai, l'aspettai a lungo, prima di decidermi a cercarla nello stabilimento. Decisi di cercarla quando vidi una delle porte di quel lungo corridoio, una porta che era stata sino ad allora sempre chiusa, aperta.

Mi addentrai tra i misteriosissimi macchinari, in uno stanzone enorme. Vidi tutti macchinari stranissimi e sconosciuti, tutti immobili, tutti silenziosi, quando vidi, in fondo ad un enorme tunnel posto in mezzo alla stanza, muoversi qualcosa. Mi addentrai in quella specie di tunnel... Strano... il macchinario al quale era collegato pareva in funzione!

Pian piano il tunnel mi sembrava sempre più grande: sarà un tunnel a forma tronco-conica? Che strana costruzione... alla fine c'era quella cosa che si muoveva... era lei? Corro subito verso... Era una bottiglia di vino, enorme, grande quanto me. Era appesa ad un filo, e... la mia ragazza, lei la teneva penzolante come una marionetta, solo che lei adesso era alta più di 5 metri! -Ti aspettavo... vieni.- Non feci in tempo a scappare che mi prese, per lei ero alto 30 cemtimetri.

-Sei alto 30 centimetri, non è una impressione... quel tunnel percorso da un senso rimpicciolisce, dall'altro fa tornare normali-, mi disse.
Mi portò nel centro dell'immenso stanzone-laboratorio, aveva il solito sguardo dolce ma determinato: aveva intenzione di trattarmi come al solito, ma ora io ero piccolo, potevo sopportare? Ebbi il coraggio di chiederle spiegazioni, e lei me le diede. -Sei oramai un fallito, e lo sai: vorresti farmi star meglio, ma non puoi: mi hai sempre lasciato fare su di te (e dentro di te) quello che volevo, dato che ti sentivi in colpa, ma per quanto potrai continuare? Io sono ancora giovane, posso andarmene via, e tu? Che farai? Continuerai a vivere qui sotto per sempre?- . Le dissi che senza di lei sarei morto, che le lasciavo fare tutto quello che voleva perché credevo che le piacesse e perché mi sentivo in colpa. -Lo so, ma io ti voglio bene, nonostante tutto. Tu, oramai, sei condannato. Non hai voglia di ricominciare a vivere, non credi di poter fare nessun altro lavoro, ti vergogni persino di uscire di qui, di farti vedere: sarei stata al tuo fianco per tutta la vita, ma non di certo questa vita in questo tugurio... io voglio andar via di qui. - La scongiurai di rimanere, che avrei fatto qualsiasi cosa per starle vicino.

-Verrai via da qui con me?-

Non risposi nulla.

Nemmeno lei disse nulla. Era lì, davanti a me, ferma. Una lacrima, una sola, rigò il suo volto. Fu un momento di debolezza, l'unico, credo, prima di prendere coraggio. Si chinò vicino a me, piegando un ginocchio: nonostante ciò, ero più in basso dei suoi seni, grande come un bambolotto; come questo mi prese cingendomi i fianchi con le palme delle mani e sollevandomi sino a lei, al suo viso che, così grande, non perdeva nulla della sua bellezza.

Mi baciò sulla fronte, poi mi rimise a terra; stavolta, dopo essersi completamente spogliata,si distese lei. Con delicatezza, ma non troppa, mi svestì: strappandomi a brandelli i vestiti come se stesse scartando un pacco. Mi pose sui suoi splendidi seni, adesso enormi, e mi indirizzò un capezzolo in bocca, la cui punta per me era grande come tutte le mie cinque dita d'una mano riunite tra loro ed a malapena entrava in bocca. Leccai per tantissimo tempo, finchè lei non mi staccò e pose la mia bocca tra le sue gambe, perché la leccassi per bene.

Mi ritrovai unto tutto il muso del suo liquore, alla fine.
Mi vide eccitato. -E' l'ultima volta... vieni qui...-
Lasciò che fossi io stesso a guidare il membro dentro di lei, ed anche se non sembrò accorgersene, entrò tutto, testicoli compresi. Mai ebbi sensazione più bella, venire in una vagina immensa, poggiando con il ventre su d'una selva di peli rossi morbida come un cuscino, e la testa sul suo ventre, poco più su dell'ombelico. Quando ebbi finito, lei mi prese e mi distese a terra, ergendosi davanti a me, stiracchiandosi. Prese una ciotola che per me sarebbe stata una vasca da bagno e mi ci pose dentro, poi si accovacciò avvicinandomi la fica ad una ventina (per me) di centimetri. Era una visione fantastica, quella che mi si offriva: l'avevo leccata per un'ora e più, poco prima, e non mi ero accorto di quanto fosse bella, perché solo adesso, al suo chinarsi, s'era dischiusa come un'immensa rosa dai petali delicatissimi.

Ma il getto di piscia che mi investì fu tutt'altro che delicato: improvviso, bollente, acidissimo e salato, e così forte e copioso che mi tenne schiacciato sul fondo della bacinella per tutta la sua durata, entrandomi in gola, nel naso, nelle orecchie: dappertutto.
Al massimo del fragore dello scroscio, potei nonostante ciò udire una possente scorreggia, così forte che rimbombò nella ciotola con quel rumore cupo e basso di quando la si fa in un cesso che si sta coprendo completamente col sedere, quasi assordandomi; ne sentii addirittura la ventata.

Quando il getto andò pian piano scemando, per cessare poi del tutto, mi accorsi che la scodella era piena fino alle mie orecchie della sua urina. Nella ciotola ristagnava, persistente, la puzza penetrante della scorreggia che prima mi aveva assordato. Con una mano lei mi rigirò supino, con la faccia nellla sua pipì, e mi disse: -Bevi, bevi finché riesci. Tutta quella che puoi bere, bevila. Dai, su...-.
Mi riempii quanto più potei, ma non riuscii a finirla. Le dissi che non mi sarebbe stato possibile, purtroppo, adesso, inghiottire nemmeno un pezzetto della sua cacca, credendo che questo sarebbe stato il passo successivo.

-Oh, no, non devi mangiare... sì, ci sarà, ma non potrai mangiarla: diverrai alla fine parte di essa... no, non ti preoccupare, non ti mangerò mica...-.

Mi tolse dalla ciotola e mi distese supino per terra. -Prima però, ho ancora da fare... soffrirai parecchio, ma fatti coraggio: non durerà a lungo...-. Era in piedi davanti a me, alta 5 metri e più rispetto a me. Pose il suo piede nudo sul mio corpo, lentissimamente: il suo calcagno, grande quanto un piatto, poggiò sul mio sesso sempre con maggior forza, facendomi un male terribile... pian piano sentii che ruotava in avanti, che il piede si abbassava rullando su di me: il contatto si estese lentamente anche alla pianta, che cominciò a schiacciarmi ventre e torace, fino alle dita che arrivarono al collo. Era un contatto pesante, ma in un certo senso morbido, e soprattutto caldissimo. La vedevo in tutta la sua bellezza, mentre il ginocchio del piede che aveva su di me si raddrizzava sempre più ed il peso mi schiacciava sempre con maggior dolore... cominciai a perdere dal naso e dalla bocca, quasi d'improvviso, tutta l'urina che lei aveva fatto e mi aveva costretto a bere, la guardai come se me ne dispiacesse moltissimo... lei salì per un attimo completamente su di me alzando l'altro piede: mi sentii spappolare dentro... tolse un po' di peso, ma senza alzare il piede.

Cominciò a spostarlo lateralmente, ora da un lato ora dall'altro, facendomi rotolare ora su un fianco, ora sull'altro: sentivo chiaramente, tra le fitte di dolore, i colpi secchi delle mie costole che si spezzavano; un po' di sangue, misto alla sua urina, usciva dalle mie narici e dalla mia bocca.

Si levò da sopra di me, andò a calzare delle scarpe con i tacchi, scarpe che ben conoscevo. Avevano il tacco non molto alto, 6-7 centimetri (per lei...), largo poco meno del suo tallone: se quest'ultimo per me era largo quanto un piatto, il tacco era come un piatto più piccolo, da dolce.

Infatti, quando eravamo di pari misure, lo adoperava per torture “dolci”: ad esempio, mi faceva poggiare le mani a terra e poi le schiacciava con due colpi secchi di tacco; con il tacco a spillo me le avrebbe trapassate, con questo otteneva di farmele con dita gonfie come wurstel e con varie unghie nere. Proprio sulle mani poggiò questi tacchi, senza colpi ma salendo pian piano con tutto il suo peso, stritolandomele prima una, poi l'altra, sistematicamente, aggravando lo spappolamento girando lentamente il tacco, alternativamente in un senso e nell'altro, quando su di esso stava tutto il suo corpo, quando vi appoggiava tutta se stessa, fermandosi solamente quando sentiva la suola poggiare uniformemente sul pavimento, solo quando la sentiva slittare sulla poltiglia di carne spappolata ed ossicini che era prima una piccola mano.

E fece la stessa identica cosa con i miei poveri piedi...
Fu meno insistente, ma non meno dolorosa, con i miei gomiti: ugualmente li schiacciò con i tacchi, ma senza spalmarli al suolo: sarei morto dissanguato. Le bastò sentire le mie ossa che si spezzettavano sotto il suo peso, lasciando intera la carne ad avvolgerle mollemente.

Per le ginocchia decise che non avrei sofferto con lentezza: mi fece congiungere le gambe, spostandomele con sorprendente precisione con la punta del piede, poi... un colpo di tacco violentissimo si abbattè con precisione su entrambe le ginocchia, con uno scrocchio identico allo schiacciar di una noce, facendomi schizzare su con il resto del corpo e ricadere all'indietro.

Mentre ricadevo vidi per un attimo il suo corpo tutto, i suoi seni cullarsi dolcemente, fase terminale di come avevano sobbalzato; i suoi capelli ricadere su di questi, quasi a coprirli.
Ero quasi in un delirio di dolore, ma la vedevo chiaramente: la mia vista non era appannata, anche se sentivo le forze pian piano andar via.

Si allontanò da me, che parevo un animale tutto deformato, con le estremità completamente appiattite ed il corpo tumefatto, gonfio, ma tutto sommato ancora intero... si tolse le scarpe ne calzò altre: sembravano quegli zoccoli da olandesina, tutti in legno duro, ma non con tacco e punta: erano tipo zeppe, con una zeppa appunto alta (per lei) più di 10 centimetri, un tutt'uno, e più larga dello zoccolo stesso; ai fianchi era rotondamente lavorata, ma la suola d'appoggio era perfettamente piatta. Cosa dovevo aspettarmi, adesso? Mi concentrai e pensai al peggio del peggio, ma lei fece di più.

Non si diresse verso di me, ma verso il tunnel. Io ero ridotto, lei normale. Ma imboccò il tunnel dalla parte dalla quale ero uscito.
Uscì da dove ero entrato, ma con sforzo, e gattoni: passava a mala pena, adesso rispetto a me era grande più di venti metri.
Si avvicinò al luogo dove io ero a terra, mi cercò con cura: adesso per lei io avevo le dimensioni di un wurstel... avrei potuto dire di un cazzo, ma no: ero di poco più piccolo.

Si chinò a guardarmi in faccia, restò così per alcuni secondi.
Capii che voleva sapere se fossi ancora vivo, allora tossii, cercando di vocalizzare qualcosa e non riuscendoci. Le bastò.

Si rialzò in piedi, si girò e si chinò sulle gambe quanto potè: il suo sedere era enorme, ma aveva intatta la bellezza che mi aveva mostrato in passato in tutte le occasioni: lo vedevo così quando lei desiderava liberarsi dei suoi bisogni, quell'ano roseo che quasi si confondeva attraverso quei peli rossi, ricci e folti. Dal mio punto di vista era a circa un metro e mezzo da me, stando lei completamente accovacciata. Un soffio caldo, dal fortissimo odore, mi scaldò tutto; quasi mi fece piacere, dato che il pavimento sembrava sempre più freddo... pian piano vidi l'ano allargarsi, poi vidi cosa stava uscendo... non seppi che fare, di solito stavo a bocca aperta per ingoiare, ma adesso il pezzo di merda che stava uscendo era più grande di me: era come un grosso tronco d'albero, d'un metro di diametro, ed era sempre più lungo: 1 metro e mezzo, 2, 2 e mezzo...

All'improvviso si staccò e mi cadde giusto sulla testa, fu un colpo tremendo anche perché non era molle, anzi: piuttosto sodo, costituito di quei piccoli boli saldamente compenetrati tra loro.
Lei lo sistemò meglio sul mio corpo: lo dispose sopra di esso, nel senso della lunghezza.

Sentivo l'odore tremendo che emanava, il calore che quasi mi scottava, il suo peso che mi teneva stretto a terra... avevo la testa lievemente reclinata su un lato per il disgusto, vedevo la base della zeppa di un piede di lei. Proprio quello scelse, quello alzò lentamente.
Non potevo muovermi... solo la testa avrei potuto muovere, in teoria, e lo feci: mi schiaccerà, ma non con il collo girato. Lo sforzo fu grandissimo, la merda, per quanto dura, cedette: riuscii a raddrizzare la testa, a metterla voltata in alto, nel far ciò il mento, il naso (quasi schiacciandosi) e la fronte scavarono dei solchi nell'escremento; mi ci trovai già con la faccia quasi affondata, per questo motivo.

Improvvisamente sentii aumentare la pressione su di me in modo vertiginoso, capii che lei aveva cominciato a schiacciare la merda che mi sovrastava. Dato che avevo il naso affondato dentro, ero con la bocca aperta, per respirare: la parete di merda, uniformemente si modellò dentro di essa ed intorno al mio corpo. Era sempre più forte, lo schiacciamento, quando presi a sentire qua e la dei dolori lancinanti, come delle pietre che si conficcavano nel mio corpo.
Quei dannati noccioli di ciliegia erano grossi come arance... uno di essi aveva appena fatto scempio del mio povero cazzo, penetrando pian piano nel bacino...

Sentivo tutti i miei organi interni spappolarsi, i polmoni non avevano più un filo d'aria: erano completamente appiattiti, la poca aria che ancora contenevano mentre venivo schiacciato non potè uscire dalla bocca, che era piena di merda: la sentii sibilare dalle orecchie, dopo piccoli scoppietti...

Sentivo tutto il pastoso escremento che si dilatava verso l'esterno, scivolando dai lati, scorrere su di me... all'improvviso il pur forte schiacciamento aumentò di colpo:non c'era più spessore di cacca tra la mia testa, ancora sana, il mio corpo quasi stritolato, e la suola della zeppa, la sentii chiaramente sulla fronte. Anche la mia testa fece strani rumori, alla fine cedette come vuota. Lei appoggiò tutto il suo peso su quella cosa scivolosa, cercando di tenere il piede più centrato possibile. Quando vi fu completamente sopra rimase così per quasi un minuto, anche se sapeva che io non ero altro oramai che una poltiglia informe intimamente mescolata a quella che il suo meraviglioso corpo aveva prodotto, per me... per l'ultima volta...

Fine.





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